di Rosanna Gaddi
Martedì 14 novembre 2017, ore 18.00, piove, fa freddo, in giro c’è poca voglia di uscire e molto traffico lungo la strada, ma la mia curiosità di ascoltare una nuova voce e di osservare una particolare visione del cibo è tanta. Tento di arrivare in tempo alla Rocca dei Rettori di Benevento. Si sta tenendo la presentazione dell’ultimo lavoro di Cristian Liberti, scrittore attento e prolifico che, nonostante non viva più a Benevento da molti anni, continua a scegliere di presentare lì i suoi lavori perchè è la “sua città”. E’ la volta di una Degustazione gastro – culturale, una “Lectio Cibum”. Liberti, coadiuvato dal prof. Michele Moccia, noto e apprezzato critico cinematografico, spiega che “Assaggio è una manifestazione, intesa come spettacolo, incontro, appuntamento, improntata sul dibattito dell’influenza del cibo nella nostra cultura e soprattutto nella nostra letteratura.…Perché è chiaro che prima del libro, del trattato, del saggio è arrivato l’assaggio.”
Mentre sono nella sua Biblio-cucina, i piatti da gustare offerti al pubblico-commensale sono prodotti tipici, vino, libri, filmati, canzoni, poesie, romanzi, il tutto “nel giusto abbinamento”.
Ho fame. La fame è il bisogno o la privazione costitutiva della materialità e della grande franchezza della materia.
Di cosa nutro il mio corpo? Di buon cibo.
Di cosa nutro la mia mente? Di sapere.
Di cosa nutro la mia anima? Di emozioni.
Solo così l’essere umano può dirsi veramente sazio.
La fame inquieta gli uomini. Così si procurano le cose, percepiscono, prendono prima di consumare, acquisiscono e immagazzinano, se ne stanno in casa, presso se stessi, a costruire, ad assicurarsi della presenza delle cose e a rappresentarsele in ogni forma artistica, conoscono e inglobano l’oggetto come nutrimento, bisogno soddisfatto e desiderio intrecciato, come dice Lévinas.
Il cibo costringe a inaugurare il cammino spirituale e culturale dell’uomo e Liberti lo rappresenta molto bene con le sue riflessioni.
Il cibo è un linguaggio. Come direbbe Wittgenstein è inutile parlare se non si partecipa allo stesso gioco linguistico.
In questo caso è inutile prendere il cibo se non si sa come mangiarlo. Bisogna conoscere non solo cosa mangiare, ma come mangiare, dove farlo e da dove arriva il cibo, a cosa porta, perchè noi diveniamo ciò che mangiamo, siamo quasi mangiati dal cibo stesso. Il cibo diventa mezzo, “carburante” per la vita, non più semplice momento di vita. Addentiamo con consapevolezza, quasi fosse un gesto d’amore e possesso.
Liberti ci invita gioiosamente alla riflessione sul ruolo e il valore del cibo nella letteratura e nella storia, come simbolo e segno dell’evoluzione del genere umano e, Moccia, attraverso le parole di Gadamer in “Verità e metodo”, parla della contemplazione che ha a che fare con lo spettatore che partecipa, a suo modo, a un banchetto. Essere spettatore è un modo autentico di prender parte, unirsi, una comunione sacrale con l’ essere vero, non un fare ma un patire. Quando il nutrimento diventa carburante come succede nel caso di alcuni momenti storici si può mangiare anche una scarpa come nel film “Le febbre dell’oro” di Chaplin, o può essere motivo di rivolta come in “La corazzata Potemkin” di Ėjzenštejn. Il cibo è dunque un linguaggio e attraverso le immagini di films famosi come “La presa del potere da parte di Luigi XIV” di Rossellini, “La grande abbuffata” di Ferreri, “Hai mangiato?” di Antonio Rezza, “Angelo” di Ernst Lubitsch, si affrontano non solo il piacere del cibo, ma anche la contemplazione di un’abbuffata, il senso della sazietà, l’amore, la guerra, fino ad arrivare alla morte di piacere attraverso il cibo stesso. L’attenzione cade sul film orientale Tampopo di Juzo Itami e sullo scambio dell’uovo. Erotico. Fa venire in mente Bataille e la sua Simone con i testicoli del toro e lo sciacquettio delle natiche nel latte. Fa venire in mente Dalì con la sua ossessione per l‘ uovo inteso come ovaie.
Piace quello che viene raccontato, la passione messa dallo scrittore Cristian Liberti, i riferimenti filmografici noti e di nicchia , il tono dolce e sicuro del critico Michele Moccia, la voce intonata che declama e canta la canzone antica “Lu guarracino” di autore ignoto. E’ tutto intriso di grande significato, ma leggero e scorrevole. Il cuoco, l’autore, il critico, il cibo, i films, i libri, tutti sono personaggi protagonisti di questo evento. Se fosse uno spettacolo teatrale non annoierebbe affato, ma entusiasmerebbe, trascinerebbe, trasporterebbe lo spettatore in una dimensione senza tempo e senza luogo. Viene voglia di mangiare, bere vino, ascoltare musica, leggere romanzi, guardare films, perdersi nei dipinti di Tiziano e nel mangiatore di spaghetti di Guttuso. Viene voglia di vivere pienamente, di dare un senso a tutto ciò che scende attraverso la gola, assaporando ogni atomo e annusando ogni odore, sgranando gli occhi per la bellezza del creato. Si sono misurate le profondità della fame? La fame d’altri risveglia gli uomini dalla loro sonnolenza di satolli e fa loro passare la sbornia del sussiego. Ho nutrito il mio corpo di buon cibo, la mia mente di sapere, la mia anima di emozioni. Solo così posso dirmi veramente sazia.
Parafrasando Jacques Derrida, bisogna pur imparare a dar da mangiare all’altro, e alla Rocca dei Rettori il pubblico è stato sfamato.