di Rosanna Gaddi
La ricetta della zeppola di San Giuseppe è documentata per la prima volta del gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, nello storico trattato “La Cucina Teorico Pratica”, del 1837. Ciononostante, le zeppole esistevano già da secoli e pare che, nella seconda metà del 1400, rientrassero addirittura tra i “privilegi” del Vicerè di Napoli, Juan II de Ribagorza (de Aragòn).
La ricetta suggerita dal Cavalcanti prevede l’utilizzo di pochi ingredienti: farina, acqua, un po’ di liquore d’anice, marsala o vino bianco, sale, zucchero e olio per friggere. Rivisitata poi da Pintauro ( ideatore della sfogliatella), al semplice impasto di fiori di frumento, sono state aggiunte le uova, lo strutto e gli aromi. Cotte con doppia frittura, prima in olio profondo e poi nello strutto fuso e bollente oppure cotta al forno. Secondo alcuni ha invece origini conventuali poiché spesso le suore si cimentavano nella sperimentazione di nuovi dolci da abbinare alle festività. Come molti dolci della tradizione napoletana, si costruiscono su un fine contrasto di sapori. Un guscio di pasta bignè fritta, e dal gusto neutro, custodisce una crema pasticcera densa, dolcissima e profumata, sulla cui sommità poggia un’amarena o una ciliegia sotto spirito che conferisce una nota aspra.
Miette ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza carrafa d’acqua fresca, e no bicchiere de vino janco, e quanno vide ch’accomenz’a fa lle campanelle, e sta p’asci a bollere nce mine a poco a poco miezo ruotolo, o duje tierze de sciore fino, votanno sempe co lo lanatiuro; e quanno la pasta se scosta da tuorno a la cazzarola, allora è fatta, e la lieve mettennola ncoppa a lo tavolillo, co na sodonta d’uoglio; quanno è mezza fredda, che la può manià, la mine co lle mmane per farla schianà si pe caso nce fosse quacche pallottola de sciore: ne farraje tanta tortanielli come solo li zeppole e le friarraje, o co l’uoglio, o co la nzogna, che veneno meglio, attiento che la tiella s’avesse da abbruscià; po co no spruoccolo appuntut le pugnarraje pe farle squiglià e farle venì vacante da dinto; l’accuonce dinto a lo piatto co zuccaro, e mele. Pe farle venì chiu tennere farraje la pasta na jurnata primma1.
Sull’origine della parola “zeppola” i pareri sono discordanti. Alcuni ritengono che derivi dal latino serpula(m), serpe, che giustificherebbe la forma di serpente attorcigliato su se stesso. Altri, invece, sostengono che il nome derivi da zeppa, dal latino cippus, con cui a Napoli si identifica il fermo di legno posto per correggere i difetti di misura nei mobili. Ancora una volta, dunque, sarebbe evidente il riferimento al mestiere di San Giuseppe. Altri collegano le zeppole alla cymbala(m), un’imbarcazione fluviale dal fondo piatto e con l’estremità arrotondata simile alla forma di una ciambella. Col tempo, attraverso una serie di modificazioni linguistiche, cymbala è diventato zippula, da cui zeppola. Un’altra ipotesi ne ricollega la radice etimologica a saeptula, da saepio, cingere , un termine che designava genericamente gli oggetti di forma rotonda. Non manca nemmeno il riferimento a Zi’ Paolo, nome del presunto friggitore napoletano, che alcuni considerano il primo frittarolo (venditore di pasta fritta descritto da Goethe in visita a Napoli) della zeppola da strada.
1 Da “La Cucina Teorico Pratica” di G. I. Cavalcanti