di Giusi Benigno
Tintu cu a Pasqua passa la jurnata senza manciarisi la bedda cassata…
Nei piccoli paesi, ma anche nelle cittadine (alcuni decenni addietro quando l’ambiente in cui si viveva era ancora a misura d’uomo) in Primavera si veniva invasi da un profumo di zagara che il vento portava ovunque mescolando con altri profumi della terra e, nelle cittadine rivierasche, del mare.
Ma oltre che dai profumi dei fiori si veniva quasi “accecati” dai colori primaverili dell’aria tersa, dai vestiti per la festa dalle tinte pastello e comunque più solari ed allegri rispetto a quelli più cupi dell’inverno appena trascorso. Le ragazze da marito sfoggiavano questi vestiti specialmente la mattina di Pasqua offrendosi agli sguardi di tutti ed approfittando di questa occasione per attirare l’attenzione di un probabile fidanzato. La temperatura primaverile riscaldava i corpi intirizziti dal freddo invernale, sopportato quasi indifesi se non per il calore del focolare a legna o a carbone e degli scaldini (cufuneddi) per chi se lo poteva permettere. Ma il calore era nei cuori in festa dei siciliani che pregustavano il ritorno dei propri cari che approfittavano spesso della Settimana Santa per tornare al proprio paese, per partecipare ai riti pasquali, per poter degustare alcune pietanze rituali e caratteristiche del periodo, per fare in definitiva un “rifornimento” di Sicilianità e poter poi riprendere il loro lavoro nel “Continente”.
La Pasqua è indubbiamente per la Chiesa la “festa” più importante di tutto l’anno. Il suono delle campane di tutte le chiese (grandi o piccole; nelle grandi città o nei piccoli paesi) coi loro suoni diversi, più o meno squillanti, si diffonde ovunque e sta a significare la lode a Cristo. Le campane in festa invitano alla pace, alla contentezza (un proverbio siciliano dice infatti: èssiri cuntèntu comu na Pasqua).
Le donne di casa (i veri “monsiù” della nostra cucina isolana) erano sottoposte ad un lavoro enorme perché la Pasqua, forse più delle altre festività, ha sempre mantenuto quasi intatta la tradizione culinaria. Era tutto un susseguirsi di un lavoro frenetico e continuo, quasi senza sosta (si dice infatti : aviri cchiù chiffàri di lu furnu di Pasqua). Si preparavano gli agnelli pasquali fatti di pasta di mandorle (li picureddi) che tradizione voleva si dovevano mangiare solo dopo l’annuncio che il Signore era risorto; con una dolce e struggente attesa da parte dei bambini (e non solo) che spesso non riuscivano a rispettare questa regola e ne pizzicavano o una zampetta o comunque una piccola parte che non dava nell’ occhio.
Ma obbligo irrinunciabile era quello di preparare la cassata nella sua forma classica, o anche nelle formine più piccole dette cassateddi, da non confondere con gli altri dolci con dentro i fichi secchi caratteristici del periodo natalizio.
Diversi detti siciliani fanno riferimento alla cassata siciliana che è uno dei pochi dolci che si debbono mangiare non prima di 24 o anche 48 ore dalla preparazione; ne cito solo tre: cu nn’appi nn’appi cassateddi di pasqua – mischìnu cu nun manciàu cassati a matina di pasqua – semu arrivati a lu venneri santu e di cassati nun sentu ciavuru... ( considerazione quest’ultima che veniva spontanea quando in una casa in quel periodo non si era indaffarati, come da tradizione, alla preparazione dei vari dolci pasquali e della cassata in particolare; ma questo detto si usava anche nel linguaggio comune per significare che un lavoro non era neanche iniziato).
“ la cassata, quando confezionata a regola d’arte, è la magnificenza della goduria del palato da mangiare con gli occhi chiusi per non essere disturbati da stimoli esterni nell’ assaporare meglio oltre che il sapore anche l’odore e la soave sensazione di liberarsi in aria appagando i desideri” .
La letteratura dialettale (e non solo) ha celebrato, a ragione, lo splendore dei dolci siciliani. Un piccolo esempio per tutti (riguardante Li minni di li Virgini):
Di li Virgini poi su li beddi minni
Quantu eccellenti sù, tutti lu sannu
Saluti a cui ci spenni li su nninni
Cui nù ni mancia ci vegna un malunnu!
Iu pri una sula, acchianirria a Tintinni
O starna dintra, carzaratu un annui
Biniditta la mamma chi vinni Binidditi ddi
Mani chi li fannu.
Delle Vergini poi sono bei seni.
Quando eccellenti sono, tutti lo sanno.
Salute a chi spende i suoi spiccioli.
A chi non ne mangia
Ci venga un malanno
Io per una sola salirtei
Sulla cuccagna
O starei dentro incarcerato per un anno!
Benedetta la madre che le vende
Benedette le mani che le fanno.
Fra tutte le tradizioni legate alla Pasqua forse la più nota, in moltissimi angoli del mondo, è quella dello scambio dell’uovo pasquale (semplicemente colorato, con o senza disegni, di cioccolato ecc.) e da noi ancora alcuni anni addietro era quasi un obbligo che il fidanzato ne regalasse uno alla fidanzata. Uova colorate a solo o nei caratteristici manufatti di pasta che assumevano diverse forme a secondo della fantasia delle massaie (pupi c’ù l’òva, campanari, cuddureddi cù l’òva). Del resto l’uovo è stato sempre associato alla vita: “omne vivum ex ovo”= ogni cosa che vive viene dall’ uovo. Pertanto nessuna meraviglia che nei secoli abbia sempre mantenuto un posto di primo piano nell’ alimentazione giornaliera ma anche in queste particolari occasioni.
Nelle famiglie più povere per mantenere viva la tradizione si facevano bollire le uova nell’ acqua dove erano state sciolte sostanze coloranti. Chi se lo poteva permettere provvedeva poi a dipingere le uova bollite a secondo del proprio estro con disegni particolari. Solo per fare alcuni esempi, i metodi più “casalinghi” erano (e restano ancora oggi, anche se esistono ora tecniche più sofisticate) quelli di far cuocere le uova in acqua con: barbabietole per ottenere un colore rosso; spinaci per un colore verde; zafferano per un colore oro; caffè per un colore scuro.
Sino ad alcuni decenni addietro, negli ultimi tempi sempre meno, a Mazara la celebrazione della Pasqua era scandita da alcuni “obblighi” ai quali bisognava adempiere: il giorno di Pasqua assistere in piazza Municipio all’ Aurora e poi fare visita al convento dei cappuccini per vedere le salme dei monaci. Poi tutti a tavola per un pranzo “ricco” fra le cui portate non poteva mancare l’agnello o il capretto arrosto, o al forno con le patate, o “aggrassatu”; le frittelle di fave, piselli e carciofi e naturalmente la cassata.
Il Lunedì (la cosiddetta Pasquetta) ci si recava a Miragliano a fare la scampagnata, restando sino all’ imbrunire a mangiare (pasta al forno, carciofi e sarde arrostiti sulla brace ecc), cantare e divertirsi.